A un anno dalla strage il Museo del Bardo di Tunisi è diventato simbolo del riscatto di un popolo. “I primi a chiedere di visitare il museo – racconta Moncef Ben Moussa, curatore del museo – sono stati i tunisini, che prima delle stragi non superavano il 5% degli ingressi. Questo ha permesso di attutire la percezione del calo delle visite. Dieci anni fa il Bardo ha avuto un picco di visite, facendo registrare circa 260mila presenze l’anno. Dopo la rivoluzione dei gelsomini, cioè dal 2011 e fino al 2015, i visitatori non superavano i 200mila l’anno. Oggi le presenze sono circa 4000 al mese, tra tunisini e stranieri. A breve vedremo se la nuova stagione sarà più incoraggiante”.
I segni delle ferite inferte alla Tunisia sono ancora lì, nelle scalfitture lasciate dai proiettili su alcune teche di vetro e nella parete alle spalle dell’Apollo di Cartagine. I fori provocati dagli spari non sono stati volutamente cancellati, ‘a futura memoria’. Ora una stele e un mosaico ricordano le vittime, compreso Akil, il cane poliziotto ucciso nel blitz.
Il museo ha riaperto a meno di due settimane dall’attentato. Tra le prime misure visibili, un metal detector a cui tutti ora devono sottoporsi, vigilanza armata all’esterno e un sistema di videosorveglianza, ma il personale riferisce di altri dispositivi più discreti e diffusi. Analoghe misure sono state introdotte nel resto della Tunisia, per garantire la sicurezza e rilanciare il turismo che qui rappresenta il 7% del Pil.
Per rilanciare il turismo e l’immagine del Paese sono stati rafforzati anche gli scambi culturali: “In Italia sono stato a Firenze, Assisi, Paestum, mi sono recato due volte in Francia e quest’estate farò tappa anche in Sicilia, a Taormina – spiega il curatore – Tornate a visitarci con le vostre famiglie, tutti insieme dobbiamo dare una lezione di civiltà e tolleranza. A tutto il mondo”.