Tutti pazzi per la Corea del sud. Prima con i film da Oscar, poi con le band K-pop e adesso con le serie televisive. Ma chi lo avrebbe mai detto che prima o poi sarebbe scoppiata la moda del paese asiatico? E tutto questo si ripercuote anche nel mondo dei viaggi, con migliaia di turisti da tutto il mondo pronti, sempre all’interno delle regole della pandemia, a raggiungere quel territorio che la cultura pop sta pompando con vigore.
Ma andiamo in ordine. In principio – ma in realtà due anni fa – fu il trionfo di Bong Joon-ho con “Parasite”, premio Oscar come miglior film e pellicola coreana più vista di sempre al cinema con 225 milioni di dollari incassati in tutto il mondo, che a fronte di un costo di 10 milioni è un ottimo risultato.
Poi arrivarono le boy band coreane con il loro K-Pop, ovvero un mix di Pop occidentale, rock, musica sperimentale, jazz, gospel, latino, hip hop, R & B, reggae, dance elettronica, folk, country, classica e giapponese, con un risultato sul Web da centinaia di milioni di visualizzazioni. Un genere che vede nei Bts, Exo, Shinee e nelle Blackpink (in questo caso una girl band) i loro simboli.
A fare entrare prepotentemente tra i teen idol e nei loro genitori la “voglia di Corea del sud” è bastato l’arrivo del fenomeno “Squid game”, ovvero la serie televisiva più vista della storia della piattaforma Netflix, con 111 milioni di spettatori. Narra la storia di 456 diseredati raccolti tra i quartieri poveri della Corea e finiti in un’isola segreta dove devono sfidarsi in un gioco che renderà milionario il vincitore. Ciò che questo branco di indebitati non sanno è che verranno uccisi quasi tutti nella gara, ammazzati dalle regole del gioco stesso oppure gli uni con gli altri. Il gioco viene finanziato da anonimi super-miliardari. Vincerà, come non accade quasi mai nella realtà, il più buono di tutti.
E lasciamo stare che nessuno sembra essersi accorto che tutto ciò che proviene dalla Corea del sud o è esaltazione o è critica aperta a una cultura ultraliberale. Quel che conta è che si è consolidata a livello plurigenerazionale una voglia di turismo verso quell’area un tempo così lontana e ora culturalmente così vicina. Potenza dei media evidentemente.
Per entrare in Corea, si legge sul sito dell’ambasciata italiana, è necessario che “tutti i viaggiatori, anche se asintomatici, sono sottoposti al test al COVID-19 nelle apposite strutture sanitarie allestite presso il porto o l’aeroporto d’ingresso. Le persone risultate positive sono ricoverate per il trattamento in apposite strutture o sottoposte al monitoraggio presso un “Living Treatment Center” a seconda della gravità dei sintomi, mentre le persone risultate negative devono osservare l’autoisolamento monitorato di 14 giorni”.
Il costo principale è il volo, che partendo dagli aeroporti italiani dura in genere 12 ore e costa non più di 1000 euro e non meno di 600, in funzione dei periodi dell’anno in cui si deciderà di visitare il Paese. Il consiglio, per evitare le “grandi piogge” è farlo tra aprile e maggio o tra settembre e ottobre.
In genere l’aeroporto in cui si arriva è quello di Incheon, dove ancora prima di atterrare si ha già la sensazione di essere in vacanza in un luogo davvero hi-tech, che non a caso è considerato tra gli scali più belli del mondo.
Quel che conta agli occhi del turista medio è Seoul, tra le più occidentali della città asiatiche. Così, se da un lato abbiamo il modernissimo Lotte World Tower – un grattacielo da 123 piani ed è alto 554.5 metri – con una vista pazzesca, dall’altro abbiamo i tanti gli edifici storici che vale la pena visitare: il Changdeokgung, ovvero Palazzo della prospera virtù, uno dei 12 siti Patrimoni Unesco presenti nel Paese.
Il resto della Corea sono soprattutto i paesaggi, in un territorio al 70 per cento montuoso dove spicca il monte Halla, un vulcano spento situato al centro dell’isola di Jeju, nonché la cima più elevata della Corea del Sud. E ancora Busan, Gyeongju (che in tanti considerano la vera capitale della Cores del sud), Jeonju, e il tempio di Guinsa.
Viaggiando incontrerete un popolo sempre aperto all’accoglienza, sicuramente diverso dai nuovi stereotipi mediatici che film, serie e divi musicali – che sembrano più copiare il peggio dell’occidente che altro – al momento stanno cercando di inculcare.
Anni di cruenta colonizzazione giapponese seguita dalla lunga guerra coreana, poi quarant’anni di dittatura, e infine la mazzata di una crisi finanziaria a cui si sono ispirati proprio gli autori di “Squid game”, non hanno piegato un popolo che da una lingua di terra sta diventando racconto sociale, culturale e turistico in tutto il mondo. Non incontrerete personaggi disperati, indebitati, intrappolati in un sistema in crisi, pronti ad ammazzarsi gli uni con gli altri in un game show crudele finanziato da milionari a loro volta in crisi economica. Troverete un popolo umano e ricco di valori che ha scelto di vivere in una terra che è la versione estrema del capitalismo. Altro che “calamari”.