La speranza di riaprire gli impianti sciistici c’è ancora, ma la prospettiva di una montagna a ‘numero chiuso’, con la capienza degli impianti di risalita ridotta al 50%, con numeri contingentati di sciatori e obbligo di prenotazione, come prevedrebbero le linee del Cts non piace ai gestori. Che temono sia ormai troppo tardi per salvare la stagione. E magari sostenere dei costi per poi richiudere di nuovo, come già successo in Francia.
“Capisco limitare la capienza delle telecabine – dice Nicola Bosticco, ad di Colomon spa, cento chilometri di piste a Bardonecchia, in alta Val Susa – ma limitare l’accesso sugli skilift, con gli sciatori a 12 metri uno dall’altro proprio no. E perché contingentare gli sciatori in assoluto? Certi numeri, con la vastità degli spazi della montagna, potrebbero essere salvaguardati in sicurezza. A Bardonecchia, nei weekend si arriva a punte di 12.000 sciatori al giorno. Dimezzare quei numeri, dopo il mancato guadagno di questi mesi, significherebbe lavorare in perdita”.
Lo stesso scetticismo arriva dall’Unione dei Comuni Olimpici della Via Lattea. Il presidente Maurizio Beria d’Argentina, sindaco di Sauze di Cesana, definisce “antieconomiche” le ipotesi sin qui circolate. “Speriamo cambino idea – dice Beria – e che le regioni possano avanzare controproposte che vengano incontro al mondo della montagna. Ci incontreremo a giorni con i gestori degli impianti per valutare il da farsi, ma così non va. Il settore dello sci ha perso già tantissimo e riaprire con queste limitazioni non ha senso. E poi senza la certezza che si possa passare da una regione all’altra. Abbiamo già perso i turisti stranieri, se ora si limita anche il turismo nazionale come si fa? Quello dello sci è un sistema: se non aprono bar, ristoranti, rifugi come è possibile? Non molti sciatori sono pronti a portarsi il panino a 2.500 metri, magari a 10 gradi sotto zero, senza poter prendere una tazza calda al bar. Lo sci è un sistema, o lo si analizza come tale, o non si va da nessuna parte”.