Svolta sul mistero del volo MH370 di Malaysia Airlines scomparso l’8 marzo 2014. Secondo un team di investigatori il pilota si suicidò. Una teoria non nuova, tra le tante avanzate per dare un senso al più grande mistero nella storia dell’aviazione, ma che stavolta è certificata da un pool di esperti di altissimo calibro. A quanto pare, il pilota Zaharie Amad Shah avrebbe indossato una maschera dell’ossigeno prima di depressurizzare l’aereo, per rendere passeggeri ed equipaggio privi di conoscenza. Inoltre l’aereo non sarebbe precipitato con un impatto violento, ma in una sorta di atterraggio controllato che avrebbe minimizzato la dispersione di detriti. Per Simon Hardy, un pilota britannico, il fatto che l’aereo abbia seguito il confine tra Thailandia e Malaysia è un forte indizio che chi era alla guida voleva evitare di essere intercettato. “Se qualcuno mi desse il compito di far sparire un Boeing 777, farei esattamente la stessa cosa”, ha concluso Hardy. In particolare, la virata sopra la città di Penang, dove Zaharie era nato, è interpretata dagli investigatori come la prova di un ultimo saluto prima di lanciarsi verso la morte.
Il team di investigatori non ha menzionato il ruolo del giovane co-pilota Fariq Abdul Hamid, al primo volo su un Boeing 777 senza la supervisione di un capitano esperto. L’attenzione degli inquirenti si era sempre concentrata su Zaharie (53 anni), un pilota con alle spalle quasi 20mila ore di volo e considerato tra i più esperti della Malaysia Airlines. Il suo matrimonio era in crisi, e lui si opponeva alla voglia di separazione della moglie. A casa sua fu anche ritrovato un simulatore di volo con cui aveva provato una volta una rotta molto simile a quella seguita alla guida del MH370. L’aereo, partito da Kuala Lumpur alla volta di Pechino con 227 passeggeri e 12 membri dell’equipaggio, effettuò una virata verso sud-ovest poco prima di entrare nello spazio aereo vietnamita, dopo che i suoi sistemi di controllo erano stati disattivati manualmente. Volò poi per altre sei ore, terminando la sua corsa in un punto imprecisato a ovest dell’Australia. Alcuni dei suoi detriti sono stati ritrovati in diversi punti della costa africana, ma prolungate ricerche costate oltre 150 milioni di dollari non hanno individuato il punto in cui è precipitato. Lo scorso gennaio, una nuova missione finanziata da privati ha iniziato a setacciare l’oceano in un’area adiacente a quella già perlustrata, e continuerà fino a fine giugno.