L’AI sta rivoluzionando i viaggi, ma non come pensi: le verità che nessuno ti dice


Oggi si parla ovunque di Intelligenza Artificiale come del motore che trasformerà l’esperienza turistica in qualcosa di impeccabile: viaggi senza intoppi, servizi iper-personalizzati, assistenti digitali capaci di anticipare ogni nostro desiderio. Una promessa affascinante, che però racconta solo una parte della realtà. Dietro le narrazioni entusiastiche si cela infatti un panorama più complesso, fatto di difficoltà operative, errori organizzativi e verità che raramente vengono messe in luce.

L’argomento è stato affrontato da Francesco Passantino, ingegnere informatico, esperto di Data Science e AI e consulente ICT con oltre trent’anni di carriera che, nel corso di una “lezione” agli studenti degli istituti tecnici del turismo nell’ambito della preview della Giornata mondiale del turismo, ha messo in evidenza i lati meno discussi dell’AI applicata al mondo dei viaggi.

Ebbene, da quello che emerge il vero ostacolo non è quasi mai tecnologico, bensì umano e culturale. Basti pensare che il 95% dei progetti pilota fallisce non per difetti negli algoritmi, ma perché le aziende non riescono a integrare questi strumenti nei propri flussi di lavoro. Un software che funziona alla perfezione per un singolo utente, infatti, rischia di bloccarsi quando viene inserito in un contesto complesso come quello di una grande organizzazione.

Un altro aspetto sorprendente riguarda gli investimenti. Oggi le imprese tendono a concentrare la maggior parte dei budget sull’AI più visibile, come chatbot e strumenti di marketing. Eppure, i ritorni più consistenti si trovano altrove: nell’automazione dei processi di back-office, nella riduzione dell’outsourcing e nel miglioramento dell’efficienza operativa. Qui si nasconde il vero valore aggiunto, lontano dai riflettori e dalle applicazioni “di facciata” che spesso attraggono le scelte aziendali.

Anche l’approccio allo sviluppo fa la differenza. La tentazione di costruire soluzioni proprietarie è forte, soprattutto per le realtà più strutturate. Ma i dati raccontano un’altra storia: le aziende che ottengono risultati concreti preferiscono acquistare strumenti già testati e instaurare partnership strategiche con fornitori specializzati. Non è una vittoria del “fai da te”, ma della collaborazione e della capacità di integrare velocemente tecnologie già mature.

C’è poi una lezione che arriva direttamente da Milano. Una giornalista del New York Times, affidandosi a un assistente virtuale, non ricevette alcun avviso sul fatto che il Primo Maggio molte attrazioni sarebbero state chiuse. Un travel designer umano riuscì invece a offrirle un itinerario migliore, arricchito da consigli su angoli nascosti della città. Sembrava la prova schiacciante della superiorità dell’esperienza umana, ma Passantino sottolinea un punto cruciale: il vero errore non fu dell’AI, ma del prompt. Se l’utente avesse chiesto di agire come un travel designer locale, di tenere conto dei giorni festivi e di proporre luoghi meno noti, il risultato sarebbe stato molto diverso. L’AI, insomma, non va misurata soltanto sulle sue risposte, ma sulla qualità delle domande che le vengono poste.

Ecco perché la sfida non è “umano contro AI”, ma “umano con AI”. Il futuro appartiene a chi saprà collaborare con la tecnologia, sfruttandone i punti di forza e imparando a guidarla con le giuste indicazioni. Non basterà avere strumenti sempre più sofisticati: servirà la capacità di definire i problemi con chiarezza, di costruire dati proprietari, di sviluppare una cultura aziendale orientata all’apprendimento e di inserire l’AI nei processi critici.

Il vero punto di svolta non arriverà quando l’Intelligenza Artificiale diventerà più intelligente, ma quando le organizzazioni e i viaggiatori impareranno a interagire con l’AI in modo più consapevole. La domanda da porsi, oggi, non è cosa l’AI possa fare per noi, ma se siamo pronti a porle le domande giuste per liberarne davvero il potenziale.

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