martedì, 24 Dicembre 2024

Musei italiani sempre più social, ma la strada è ancora lunga

Quasi 5 mila tra musei, aree archeologiche e monumenti, quelli conteggiati nel 2015 dall’Istat. Un patrimonio ricco e diffuso, ma con tanto potenziale ancora non valorizzato. Sono molti i musei italiani che si stanno aprendo al digitale ma sono ancora pochi quelli in grado di offrire allestimenti interattivi, ricostruzioni virtuali e connessione wifi gratuita. È quanto riporta un’indagine presentata a Milano in occasione della 1^ edizione dell’Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali promosso dalla School of Management del Politecnico. 

“Le istituzioni culturali si trovano di fronte a una doppia sfida: non basta attrarre visitatori, bisogna trovare il modo per comunicare il proprio patrimonio in un modo nuovo, che lo renda più prossimo alle esigenze di conoscenza ed esperienza di cittadini e turisti – raccomanda Michela Arnaboldi, direttore Scientifico dell’Osservatorio – Molte istituzioni hanno raccolto la sfida di trasformarsi per diventare più efficienti e parlare a nuovi e vecchi pubblici. L’innovazione digitale, che ha determinato un radicale cambiamento dei paradigmi di mercato negli ultimi anni, potrebbe ora rappresentare un fondamentale fattore di trasformazione per il settore culturale”.  

Tra gli strumenti digitali il più diffuso è il sito web, posseduto ormai dal 57% dei musei italiani. Seguono gli account sui social network (41%) e poi la newsletter (25%). Solo il 20% offre allestimenti interattivi o ricostruzioni virtuali, il 19% il wi-fi gratuito. Quando si parla di QR code, servizi di prossimità, catalogo accessibile online o visita virtuale del museo dal sito web le percentuali scendono fino al 13-14%.  

Secondo l’indagine dell’Osservatorio Innovazione Digitale c’è ancora da fare. A partire proprio dai siti web, che spesso non facilitano l’utente e che nella metà dei casi (49%) sono solo in italiano. Per non parlare di servizi avanzati, come la possibilità di acquistare online merchandising o materiale legato al museo (l 6%), fare donazioni (6% e per il 70% si tratta di musei privati) e crowdfunding (1%).  

Quanto alla presenza sui social network, il 52% possiede un account, ma solo il 13% è presente su tutti e tre i social più diffusi (Facebook, Twitter, Instagram), anche se il particolare curioso è che il 10% dei musei che non hanno un sito Internet risulta però attivo su Facebook.

Nel campione analizzato, i 3 musei con il maggior numero di page like su Facebook sono comunque i Musei Vaticani, seguiti dalla Reggia de La Venaria Reale e dal MAXXI. Su Twitter, primeggia il profilo dei Musei in Comune di Roma, seguito MAXXI e dal Museo del Novecento, a Milano, su Instagram, vince la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, seguito da Triennale e MAXXI.

Una percentuale più alta, ben il 62%, è presente invece su Tripadvisor e in molti (51%) hanno un certificato di eccellenza. Per quanto riguarda le startup, in Italia sono 105 quelle censite. Pochissime quelle che si cimentano sul B2B, probabilmente a causa della prudenza che le istituzioni culturali del paese ancora mantengono verso gli investimenti digitali. Mentre c’è fermento sui servizi di supporto alla visita di musei e città, ambito in cui il mercato è maggiore anche per la forte connessione con il turismo. 

“Quello che ne viene fuori – conclude Michela Arnaboldi – è un panorama di istituzioni culturali in fermento, che cerca la via per l’innovazione per superare le criticità e sperimentare nuove modalità di mediazione, spesso abilitate dal digitale. La prima sfida –sottolinea – è legata alle risorse umane e alle competenze: le istituzioni culturali devono dotarsi di figure nuove, ibride, che diventino interpreti digitali del patrimonio, ossia di persone che conoscano il patrimonio, il suo valore, ma che al contempo siano in grado di valutare le opportunità offerte dal digitale. La seconda sarà rendere i progetti innovativi sostenibili economicamente sul medio e lungo periodo, magari attraverso nuovi modelli di business in grado di trarre risorse finanziarie proprio dai servizi abilitati dalla tecnologia”.

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