L'avvistamento di 300 oggetti galleggianti nella zona dell'Oceano Indiano dove si concentrano le ricerche ha rilanciato le speranze di ritrovare i resti del volo Malaysia Airlines 370, che si presume sia precipitato in mare lo scorso 8 marzo con 239 persone a bordo. Mentre continua la corsa contro il tempo per ritrovare le scatole nere e possibilmente fare luce sulle cause dell'incidente, quei detriti a pelo d'acqua "rappresentano la pista più credibile che abbiamo", ha detto il ministro malaysiano dei trasporti Hishammuddin Hussein.
Anche se stavolta dovesse davvero essere quella buona, dal primo resto del Boeing al ritrovamento delle scatole nere il passaggio non è per niente automatico. In quel punto le acque sono profonde oltre 3mila metri, e le "black box" dalle quali passano le residue speranze di capire il perché il volo MH370 sia finito in quel punto – opposto rispetto all'originaria rotta Kuala Lumpur-Pechino – smetteranno di emettere segnali tra una decina di giorni. Il sonar inviato dagli Usa è in grado di individuarle anche dopo, ma solo se passa loro vicino sul fondo del mare. Le stesse scatole nere contengono le ultime due ore di registrazioni delle voci in cabina; dato che il Boeing ha continuato a volare per altre sette ore dal momento in cui ha interrotto i contatti con la torre di controllo, cosa sia successo in quei momenti poco dopo mezz'ora dal decollo potrebbe rimanere un mistero. Dall'incredibile successione di problemi tecnici che toglie l'aria in cabina, fino all'atto disperato di uno dei piloti, nessuna possibilità è esclusa.
Intanto da Chicago è partita un'azione legale delle famiglie dei passeggeri a bordo del volo contro la Malaysia Airlines ed il colosso americano dell'aviazione civile Boeing, che ha sede proprio nella capitale dell'Illinois. Una causa che si preannuncia multimilionaria.