La moda dell’home restaurant tira anche in Italia. Solo nel 2014 ha fatturato 7,2 milioni di euro in Italia. Con ben 7mila cuochi social attivi nel 2014 ed un trend in ulteriore crescita per il 2015, lo scorso anno sono stati organizzati ben 37 mila eventi social eating, con una partecipazione di circa 300 mila persone e un incasso medio stimato, per singola serata, di 194 euro. I numeri emergono dal report realizzato da CST – Centro studi turistici per Fiepet Confesercenti e presentato durante il convegno Fiepet Confesercenti “Pubblici esercizi a confronto, quale futuro formativo” che si è svolto a Cesena.
Dal report appare chiaro come il web sia l’ecosistema degli home restaurant: dai social ai siti del proprietario dell’abitazione alle piattaforme dedicate al social eating, canali privilegiati per la promo-commercializzazione degli eventi. Tra le più diffuse a copertura nazionale: Gnammo.com, Le Cesarine, Peoplecooks.com, Eatwith.com, Vizeat.com e Kitchenparty.org.
L’età media del cuoco social è di 41 anni e il 56,6% è donna. Inoltre, il 53,8% è presente su almeno uno dei principali social e il 14,9% svolge attività extra correlate al settore del food.
Lombardia (16,9%) Lazio (13,3%) e Piemonte (11,8%) sono in testa tra le regioni in cui il fenomeno appare più diffuso. Milano si aggiudica, nel 2014, il primo posto tra le città in cui risiede la maggior parte dei cuochi social, con una quota pari all’8,4% del totale. Nel capoluogo lombardo si trova, infatti, il Ma’ Hidden Kitchen Supper Club, uno dei più noti e di maggior successo home restaurant d’Italia.
Mentre Roma raggiunge il secondo posto con l’8,2% dell’offerta. La realtà di riferimento nella capitale è Ceneromane.com, portale che aggrega in tempo reale gran parte delle proposte social eating dell’area.
Con una quota del 5,6%, Torino è la terza città più «social eating» in Italia nonché sede di Gnammo, la piattaforma che ha contribuito a diffondere il fenomeno in tutto il territorio nazionale. Uno dei tre co-founder della start-up torinese è pugliese e, non a caso, Bari e il Salento sono le due realtà più attive del Mezzogiorno. Le regioni del Sud, ad eccezione della Puglia, si caratterizzano per una discreta quantità di proposte, ma con scarso successo.
Agli oltre 37mila eventi social eating organizzati nel 2014 hanno partecipato circa 300mila persone. La spesa media stimata è di 23,70 euro pro-capite. La Lombardia ha registrato il 24,6% degli ospiti. Seguono il Lazio (18,6%), Piemonte (15,8%) e Puglia (8,4%). Marginali le adesioni registrate nelle regioni del Sud, con quote in molti casi inferiori al 2%.
In Lombardia, Emilia Romagna, Marche, Umbria, Lazio, Puglia e Basilicata l’incasso è spesso superiore ai 200 euro. Viceversa, in Valle d’Aosta, Molise, Calabria e Sicilia l’incasso medio non supera i 150 euro. Ogni cook incassa in media 1.002,51 euro all’anno.
Le stime confermano, dunque, il primato della Lombardia, con una quota di circa 1,9 milioni di euro di fatturato, pari a oltre un quarto del fatturato totale. Introiti oltre il milione di euro si registrano anche nel Lazio (1,4 milioni) ed in Piemonte (1,1 mln).
Ma oggi home restaurant e social eating possono considerarsi ancora solo una semplice moda, una passione per aspiranti chef? Secondo il presidente di Fiepet Confesercenti, Esmeralda Giampaoli, “il fenomeno ha perso il suo carattere amatoriale assumendo sempre più un approccio imprenditoriale. L’home restaurant ed il social eating sono un legittimo fenomeno di mercato, ma occorre tracciare una linea di demarcazione chiara e netta tra ciò che definiamo sharing economy e ciò che invece è attività imprenditoriale a tutti gli effetti.
Da quanto emerge da un sondaggio condotto da SWG per Fiepet sui ristoratori, 9 imprenditori su 10 chiedono più regole, mentre 8 su 10 ritengono che allo stato attuale gli home restaurant sono una forma di concorrenza sleale per la ristorazione regolare e si corre il rischio di spianare la strada ad una ristorazione parallela composta da un esercito di imprese irregolari che esercitano al di fuori di ogni norma e controllo. Per questo troviamo preoccupante – conclude – che ci siano anche amministrazioni locali che danno supporto al fenomeno prima che si arrivi ad una regolamentazione chiara”.