Turismo e dialogo interculturale: una via verso la pace?


(di Giorgio Andrian*) Possiamo pensare che il turismo favorisca il dialogo tra culture diverse? E quindi, possa rappresentare una via verso la pace?

Senza dubbio il turismo è il settore di gran lunga più importante – numericamente e qualitativamente – nel far viaggiare enormi quantità di persone verso mete più o meno lontane dai loro luoghi di residenza: e metterli in contatto – anche se per periodi brevi – con altre culture. Cosa accade quando una persona si allontana dalla propria casa per esplorare l’altrove?

Viaggiare non è soltanto cambiare paesaggio, ma entrare — spesso senza accorgersene — in mondi culturali diversi, abitati da gesti, parole, sguardi e tradizioni che ci interrogano, ci sorprendono, a volte ci mettono a disagio. È proprio in questi momenti di incontro e scoperta che può nascere qualcosa di prezioso: il dialogo interculturale.

Viviamo in un’epoca in cui i conflitti, le divisioni identitarie e le incomprensioni tra popoli sembrano crescere. Eppure, in questo scenario complesso, il turismo può rappresentare un ponte, un’occasione concreta per avvicinare le persone, per creare legami che superano confini politici e culturali.

Chiunque abbia viaggiato con apertura e curiosità sa che certe esperienze vanno oltre la fotografia di un monumento o il piatto tipico assaggiato in un ristorante. C’è un momento in cui ci si ritrova a parlare con un abitante del luogo, magari in una lingua mista di parole e sorrisi, e ci si sente, improvvisamente, parte di qualcosa di più grande. Sono quegli attimi di connessione umana che rendono il turismo uno strumento potenzialmente trasformativo.

Naturalmente, non tutto il turismo è di per sé positivo. Il turismo di massa, spesso guidato da logiche di consumo rapido, può causare danni ambientali, culturali e sociali. La cultura locale può essere svuotata, mercificata, ridotta a spettacolo. Ed è proprio per questo che oggi si parla sempre più di turismo sostenibile, etico, responsabile. Un turismo che ascolta, che rispetta, che restituisce.

Ci sono esempi illuminanti. In alcuni paesi dell’America Latina, ad esempio, comunità indigene aprono le porte ai viaggiatori non per esibirsi, ma per condividere la propria visione del mondo. In Medio Oriente, progetti di “turismo di pace” portano gruppi misti di israeliani e palestinesi a visitare insieme luoghi simbolici, nel tentativo di riscrivere, almeno in parte, le narrazioni del conflitto. In Europa, i programmi di scambio tra giovani (come l’Erasmus) non sono semplici viaggi studio, ma occasioni di crescita umana e culturale.Il turismo, quando è vissuto con consapevolezza, diventa dialogo. E il dialogo, per sua natura, è una forma di pace. Non una pace fatta di trattati firmati dai governi, ma una pace quotidiana, costruita a piccoli passi, nelle relazioni tra le persone. L’UNESCO da tempo sostiene che il dialogo tra le culture è lo strumento più potente per prevenire i conflitti e costruire società inclusive.

Certo, non basta un viaggio per cambiare il mondo. Ma ogni incontro autentico può lasciare un seme. Ed è quello di cui il mondo sempre più frammentato in cui viviamo ha un estremo bisogno. Ma come si fa in pratica?

Eccovi alcuni esempi legati alla mia storia personale.

1. Europa – Erasmus+ e la diplomazia giovanile

Cronologicamente e per vocazione appartengo alla cd ‘Erasmus generation’. E ne ho ampiamente beneficiato studiando in Francia e in Germania. Da decenni, il programma Erasmus ha permesso a milioni di giovani europei di studiare e vivere per mesi in un altro paese, sviluppando una mentalità aperta e transnazionale. Molti studenti raccontano come l’esperienza abbia cambiato radicalmente il loro modo di vedere l’altro, trasformandoli in ambasciatori informali della pace.

2. Palestina/Israele – Abraham Tours&Peace Tourism

Da diversi anni insegno (come visiting professor) all’Università di Betlemme, in Palestina. Ogni anno promuovo viaggi studio per i miei studenti europei che accompagno nella regione a scoprire di persona la situazione tra Israele e Palestina. Mi avvalgo di ONG locali che sono attive in entrambi i paesi e fanno vivere esperienze (alle volte anche molto forti) a contatto diretto con le popolazioni locali, dando così la possibilità di interagire con le persone, visitando campi profughi e villaggi, e partecipano a workshop di mediazione. L’obiettivo non è solo “vedere”, ma comprendere. È turismo che ascolta le ferite e si mette in gioco.

3. Karamoja, Uganda – Turismo comunitario nei villaggi Karimojon

Siamo nella regione a nordest dell’Uganda, ai confini con il Kenya (ad est) e con il Sud Sudan (a nord). E’ la regione abitata prevalentemente da tribù nomadi, i Karimojon, molte delle quali vivono ancora in villaggi molto semplici, costruiti con le stesse tecniche di centinaia di anni fa. Avere la possibilità di interagire con loro direttamente, di dormire in una delle loro capanne, di condividere il loro cibo e – se si ha abbastanza fiato! – di fare un tratto di sentiero con loro accompagnando le loro mandrie al pascolo sono esperienze che vengono organizzate sulla base di progetti di community-based sustainble tourism. Alla fine, ci si saluta entrambi più arricchiti.

*Giorgio Andrian, geografo ed ex funzionario Unesco

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